Anche il lavoro domestico è stato fatto oggetto di interventi di modifica normativa ad opera della legge 28 giugno 2012, n. 92 con speciale riguardo alla fase di risoluzione del rapporto di lavoro, vale a dire alle ipotesi di licenziamento, dimissioni e risoluzioni consensuali. Nuove tutele inoltre dall’intesa del 9 aprile in merito ai termini di preavviso in caso di licenziamento delle lavoratrici madri.

Ambito di riferimento

Anzitutto, con riguardo all’impiego di lavoratori domestici va chiarito che si ha riguardo esclusivamente ai lavoratori che prestano con continuità attività lavorative al servizio e per il funzionamento della vita familiare, secondo quanto previsto dall’art. 2240 cod. civ., dalla legge 2 aprile 1958, n. 339 (“tutela del rapporto di lavoro domestico”) e dal Ccnl del 13 febbraio 2007.

In particolare, l’art. 1 della legge n. 339/1958 chiarisce che “s’intendono per addetti ai servizi personali domestici i lavoratori di ambo i sessi che prestano a qualsiasi titolo la loro opera per il funzionamento della vita familiare, sia che si tratti di personale con qualifica specifica, sia che si tratti di personale adibito a mansioni generiche”.

Si tratta, in buona sostanza, di quanti operano esclusivamente per le necessità della vita familiare del datore di lavoro (tuttofare, camerieri, cuochi, bambinaie, colf, badanti, autisti, giardinieri, custodi e portieri, fra gli operai; precettori, governanti, assistenti familiari, maggiordomi, fra gli impiegati), anche presso le comunità religiose (conventi o seminari, Cass. 13 ottobre 1967, n. 2447), le convivenze militari (caserme, comandi o stazioni), nonché nelle comunità senza fini di lucro (case famiglia, ricoveri e pensionati per anziani a finalità assistenziali), quale che sia il numero dei componenti.

In particolare il CCNL classifica in quattro livelli i lavoratori domestici, in base alle mansioni svolte, al livello d’istruzione e al grado di professionalità:

  • Livello A: prestatori di lavoro generico, non addetti all’assistenza delle persone, che non hanno raggiunto l’anzianità di servizio di 12 mesi per passare al livello successivo; lavoratori che svolgono mansioni esecutive prettamente manuali o di fatica; addetto alle pulizie, addetto alla lavanderia, aiuto cucina, addetto al giardino per lavori di manutenzione ordinaria di pulizia e annaffiatura, stalliere, assistente agli animali domestici, operaio comune con mansioni di grandi pulizie o di piccola manutenzione;
  • Livello A super: addetti alla compagnia di persone autosufficienti, baby sitter con mansioni di vigilanza di bambini in assenza di familiari;
  • Livello B: lavoratori con mansioni relative alla vita familiare con specifica capacità professionale ed esperienza: collaboratore generico polifunzionale, custode o portinaio di abitazioni private, addetto alla stireria, cameriere, autista, giardiniere, operaio qualificato addetto alla manutenzione dell’abitazione, guardarobiere, addetto al riassetto delle camere e al servizio di prima colazione per gli ospiti del datore di lavoro, lavoratore generico che compie il passaggio dal livello inferiore;
  • Livello B super: assistenti a persone autosufficienti;
  • Livello C: collaboratori con specifiche conoscenze; cuoco;
  • Livello C super: assistenti senza formazione specifica a persone non autosufficienti;
  • Livello D: lavoratori che, in autonomia e responsabilità, presiedono all’andamento della casa o svolgono mansioni con specifica elevata competenza professionale o con mansioni di coordinamento: istitutore, puericultore, governante, maggiordomo, capo cuoco, chef, infermiere diplomato generico, assistente geriatrico, amministratore dei beni di famiglia;
  • Livello D super: assistenti con formazione specifica a persone non autosufficienti.

Licenziamento

Procedendo ora con le novità normative dettate dalla legge n. 92/2012, si può anzitutto evidenziare come l’art. 4, comma 1, della legge 11 maggio 1990, n. 108 (“Disciplina dei licenziamenti individuali”) preveda che, fermo restando quanto stabilito dall’art. 3 della medesima legge (“il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie (…) è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta e comporta, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le conseguenze previste dall’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300”), le disposizioni della stessa legge in materia di licenziamenti individuali non trovano applicazione nei rapporti di lavoro domestico (“le disposizioni degli articoli 1 e 2 non trovano applicazione nei rapporti disciplinati dalla legge 2 aprile 1958, n. 339”, ma invero il riferimento normativo non può limitare l’ambito di applicazione che ricomprende la generalità dei rapporti di lavoro domestico anche non disciplinati dalla legge n. 339/1958).

Il lavoro domestico, quindi, seguita a rientrare, anche dopo la cd. “Riforma Fornero”, fra le fattispecie in cui non esistono limitazioni al potere di recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato da parte del datore di lavoro, essendo questi libero di licenziare il lavoratore addetto ai servizi domestici, nei confronti del quale è in atto un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, semplicemente dando il preavviso contrattualmente previsto (cfr. art. 2244 cod. civ.) senza la necessità di fornire alcuna motivazione (recesso ad nutum, vale a dire il licenziamento senza che esista una giusta causa o un giustificato motivo, che un tempo era la regola ed ora è divenuta una possibilità del tutto residuale ed eccezionale).

Trova, infatti, applicazione unicamente l’art. 2118 cod. civ., secondo il quale il datore di lavoro può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti dalla contrattazione collettiva, dagli usi o secondo equità (cfr. art. 2244 cod. civ.).

A tal proposito si tenga doverosamente presente che con verbale di accordo del 9 aprile 2013 (cfr. Rinnovato il CCNL per il lavoro domestico) le parti firmatarie del CCNL hanno sancito (inserendo un terzo comma nella disposizione) che i termini di preavviso delineati dall’art. 38, commi 1 e 2, del CCNL medesimo siano da intendersi raddoppiati qualora il datore di lavoro intimi il licenziamento prima del trentunesimo giorno successivo al termine del congedo di maternità.

Tuttavia un peso specifico di rilievo la legge n. 92/2012 sembrerebbe averlo con riguardo al regime sanzionatorio: l’art. 1, comma 42, lett. a) e b), della legge di riforma, infatti, che riscrive la rubrica («Tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo») e i contenuti dell’art. 18 della legge n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori), introduce al nuovo art. 18, comma 1, della legge n. 300/1970, la previsione secondo cui i licenziamenti di tipo discriminatorio, operati da qualsiasi datore di lavoro («quale che sia il numero dei dipendenti occupati») verso qualsiasi lavoratore – per cui sembrerebbero essere ricompresi anche i lavoratori domestici – indipendentemente dal motivo che sia stato formalmente addotto, obbligano il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento, ad ordinare al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.

La norma richiama il pregresso regime sanzionatorio già sancito dall’art. 3 della legge n. 108/1990, e comprende il licenziamento nullo perché discriminatorio (intimato in violazione dei divieti di licenziamento), nonché i licenziamenti comunque affetti da nullità (secondo espresse previsioni di legge) o che siano stati determinati da un motivo illecito determinante (art. 1345 cod. civ., come nell’ipotesi del cosiddetto «licenziamento per ritorsione» o «per rappresaglia» intimato dal datore di lavoro per reagire ingiustamente e in modo arbitrario ad una condotta non illecita, né antidoverosa, del lavoratore; cfr. Cass. 1° dicembre 2010, n. 24347 e Trib. Brescia, ord. 25 settembre 2009). Lo stesso regime sanzionatorio trova applicazione anche nei confronti del licenziamento che sia dichiarato inefficace perché intimato in forma orale anziché scritta, sebbene l’art. 38 del CCNL vigente non preveda la forma scritta del licenziamento del lavoratore domestico (cfr. Cass. n. 16995/2007).

In conseguenza dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro deve intendersi risolto se il lavoratore non ha ripreso servizio entro 30 giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo che il lavoratore, fermo restando il diritto al risarcimento del danno, chieda al datore di lavoro (proprio in sostituzione della reintegrazione entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore) la corresponsione di una indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, non assoggettata a contribuzione previdenziale, in quanto tale richiesta determina automaticamente la risoluzione del rapporto di lavoro.

Venendo al risarcimento, il nuovo art. 18, comma 2, della legge n. 300/1970 affida al giudice l’obbligo di condannare il datore di lavoro anche al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento nullo, fissando una indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, diminuita di quanto percepito (aliunde perceptum) per lo svolgimento di altre attività lavorative nel periodo di illegittima estromissione dal rapporto di lavoro. La misura del risarcimento, peraltro, per espressa previsione di legge, non può comunque essere inferiore a 5 mensilità, mentre tutto il periodo non lavorativo anzidetto deve essere coperto dal versamento dei contributi previdenziali e assistenziali da parte del datore di lavoro.

Dimissioni

Secondo quanto previsto dall’art. 2118, comma 1, cod. civ. (cfr. art. 2244 cod. civ.) ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti dalla contrattazione collettiva, dagli usi o secondo equità. L’atto di recesso del lavoratore dal contratto di lavoro, detto comunemente «dimissioni» può essere classificato come volontario quando si tratta di una decisione che discende unicamente da una sua considerazione di convenienza (che è insindacabile tanto dalla controparte, quanto dallo stesso giudice); si parla, in questo caso, di dimissioni volontarie. Le dimissioni possono però essere determinate da un comportamento illegittimo del datore di lavoro e, in tal caso si parla di dimissioni per «giusta causa» in conseguenza del grave inadempimento del datore di lavoro alle obbligazioni fondamentali del rapporto (secondo l’art. 2119 cod. civ., infatti, «ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto»; cfr. art. 2244 cod. civ.).

Anche sulle dimissioni è però pesantemente intervenuta la legge n. 92/2012 per introdurre una forte limitazione burocratica.

Non esistono limiti alla possibilità del lavoratore di dimettersi, recedendo dal contratto di lavoro a tempo indeterminato. Unica condizione, salvo il caso di dimissioni per giusta causa, è l’obbligo di dare il preavviso contrattualmente previsto. In alcuni casi diverse disposizioni legislative hanno previsto nei decenni l’osservanza di particolari formalità. Si è trattato, in genere, non già di norme limitative, bensì di disposizioni tendenti a proteggere il lavoratore e la lavoratrice, avendo lo scopo di impedire che il datore di lavoro mascheri sotto forma di dimissioni un licenziamento, oppure che le dimissioni siano rese in un clima di particolare pressione psicologica sul lavoratore.

Rilevano così, anzitutto, le dimissioni della lavoratrice nel periodo durante il quale vige il divieto di licenziamento per le donne in gravidanza e puerperio dall’inizio della gravidanza fino a 3 mesi dopo il parto o fino all’anno di età del bambino (art. 55, comma 4, D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151). L’art. 4, commi 16-23, della legge n. 92/2012, infatti, si occupa della tutela della maternità e della paternità, nonché del contrasto del fenomeno delle dimissioni “in bianco”. Il comma 16 sostituisce il testo dell’art. 55, comma 4, del D.Lgs. n. 151/2001, al fine di prevedere che non soltanto la richiesta di dimissioni presentate dalla lavoratrice, durante il periodo di gravidanza, nonché quelle della lavoratrice o del lavoratore durante i primi tre anni di vita del bambino (la norma novellata prevedeva nel testo originario l’estensione del periodo al compimento del primo anno di vita del bambino) o nei primi tre anni di accoglienza del minore adottato o in affidamento, o, in caso di adozione internazionale, nei primi tre anni decorrenti dalla comunicazione della proposta di incontro con il minore adottando (ovvero dalla comunicazione dell’invito a recarsi all’estero per ricevere la proposta di abbinamento), devono essere convalidate dal Servizio Ispezione Lavoro della Direzione Territoriale del Lavoro competente per territorio. La norma, infine, prevede espressamente che le dimissioni non hanno efficacia finché non siano convalidate, in quanto alla convalida è «sospensivamente condizionata» la stessa efficacia della risoluzione del rapporto di lavoro.

Con riferimento alla generalità delle dimissioni (al di fuori delle ipotesi di gravidanza, adozione e affidamento e ad eccezione, sembrerebbe, delle dimissioni per causa di matrimonio che restano soggette alla disciplina speciale) l’efficacia nei confronti della lavoratrice o del lavoratore è sospensivamente condizionata alla convalida effettuata presso la Direzione Territoriale del Lavoro o il Centro per l’impiego territorialmente competenti, ovvero presso le sedi individuate dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (art. 4, comma 17, della legge n. 92/2012).

Quale misura alternativa, nel tentativo di semplificazione, l’efficacia delle dimissioni della lavoratrice o del lavoratore è sospensivamente condizionata alla sottoscrizione di una apposita dichiarazione della lavoratrice o del lavoratore (art. 4, comma 18, della legge n. 92/2012) apposta in calce alla ricevuta di trasmissione della comunicazione obbligatoria di cessazione del rapporto di lavoro (inviata telematicamente all’Inps).

Se la lavoratrice o il lavoratore non procede alla convalida o alla sottoscrizione della dichiarazione alternativa, il rapporto di lavoro si intende risolto, per il verificarsi della condizione sospensiva, quando la lavoratrice o il lavoratore non aderisce, entro 7 giorni dalla ricezione (intesi come giorni di calendario, «per evidenti esigenze di certezza», secondo la Circolare n. 18/2012), all’invito a presentarsi presso la Direzione Territoriale del Lavoro o il Centro per l’impiego territorialmente competenti ovvero all’invito ad apporre la predetta sottoscrizione, che gli sia stato trasmesso dal datore di lavoro tramite comunicazione scritta (che deve includere copia della comunicazione obbligatoria di cessazione del rapporto già effettuata), ovvero non effettui la revoca delle dimissioni (art. 4, comma 19, della legge n. 92/2012). La comunicazione contenente l’invito si considera validamente effettuata quando è recapitata al domicilio della lavoratrice o del lavoratore indicato nel contratto di lavoro o ad altro domicilio formalmente comunicato dalla lavoratrice o dal lavoratore al datore di lavoro, ovvero è consegnata alla lavoratrice o al lavoratore che ne sottoscrive copia per ricevuta (art. 4, comma 20, della legge n. 92/2012).

Nei sette giorni (che possono sovrapporsi con il periodo di preavviso lavorato) la lavoratrice o il lavoratore ha facoltà di revocare le dimissioni, comunicando la revoca in forma scritta (art. 4, comma 21, della legge n. 92/2012), che per la Circolare n. 18/2012 è forma obbligatoria per «evitare dubbi sulla effettiva volontà e quindi possibili contenziosi». Il rapporto di lavoro, se interrotto per effetto del recesso, riprende dal giorno successivo alla comunicazione della revoca. Se il datore di lavoro, mancando la convalida e la dichiarazione sottoscritta, non provvede a trasmettere alla lavoratrice o al lavoratore la comunicazione contenente l’invito entro il termine di 30 giorni dalla data delle dimissioni, esse si considerano definitivamente privi di effetto (art. 4, comma 22, della legge n. 92/2012).

Risoluzioni consensuali

La cessazione del rapporto di lavoro può avvenire anche a seguito di un accordo diretto fra le parti che stabilisce particolari condizioni, purché i diritti irrinunciabili del lavoratore non vengano elusi, in particolare, quelli concernenti il trattamento di fine rapporto. Uno degli accordi più frequenti riguarda la rinuncia al preavviso dovutogli: mentre non è valida una clausola che escluda (prima del recesso) l’obbligo del preavviso, è ben possibile, al momento del recesso, che la parte non recedente rinunci a questo suo diritto; la rinuncia deve risultare da accordi chiari ed è consigliabile una stipulazione scritta. Non occorre, quindi, la forma scritta, la volontà del lavoratore può emergere da fatti concludenti (Cass. 11 giugno 1999, n. 5791), tuttavia la giurisprudenza non ritiene sempre sufficiente una volontà tacitamente manifestata, in ragione della diversa posizione di forza contrattuale rivestita dal lavoratore (Cass. 15 giugno 2001, n. 8106). In caso di accordo, quindi, è necessario stipulare un patto scritto chiaro, dal quale risulti senza equivoci la contropartita a favore del lavoratore che rinuncia alla possibilità di conservare il posto di lavoro, nonché la necessità che la contropartita sia congrua e non simbolica.

Peraltro, anche le risoluzioni consensuali sono state fatte oggetto di specifico intervento di appesantimento burocratico da parte della legge n. 92/2012: le procedure obbligatorie di convalida sopra richiamate per le dimissioni, infatti, sono state estese dalla riforma del mercato del lavoro a tutte le risoluzioni consensuali, alle medesime condizioni sopra indicate, sancendo che la risoluzione consensuale non ha efficacia finché non sia convalidata, in quanto alla convalida è «sospensivamente condizionata» l’efficacia della risoluzione del rapporto di lavoro (in alternativa anche qui si può procedere alla sottoscrizione di una dichiarazione della lavoratrice o del lavoratore apposta in calce alla ricevuta di trasmissione della comunicazione obbligatoria di cessazione del rapporto di lavoro).

Altre forme di risoluzione

Naturalmente, a prescindere dagli interventi riformatori della legge n. 92/2012, il rapporto di lavoro domestico seguita ad estinguersi anche in caso di morte del datore di lavoro. Tuttavia, è fatta salva la possibilità di proseguire di fatto il rapporto di lavoro con altro datore di lavoro subentrante fra i conviventi del datore deceduto (Cass. 9 giugno 1993, n. 6407).

Esonero dal “ticket” ASpI

Da ultimo va segnalato che l’art. 2, comma 1, della legge n. 92/2012 introduce, come noto, nell’ordinamento giuslavoristico la nuova ASpI. La disposizione sancisce la nascita del nuovo ammortizzatore sociale unitario (istituito presso l’Inps nella Gestione delle prestazioni temporanee ai lavoratori dipendenti di cui all’art. 24 della legge 9 marzo 1989, n. 88), sostitutivo della indennità di disoccupazione (non agricola) e di mobilità, a far data dal 1° gennaio 2013, con riferimento agli eventi di disoccupazione venutisi a realizzare da tale data (seppure con lo specifico regime transitorio dettato dall’art. 2, commi 44-46, della stessa legge n. 92/2012). Scopo dell’ASpI è, dunque, quello di fornire ai lavoratori che hanno perso involontariamente il posto di lavoro, una apposita “indennità mensile di disoccupazione”.

Nell’ambito di applicazione dell’ASpI risultano compresi i lavoratori dipendenti ad eccezione dei dipendenti a tempo indeterminato delle pubbliche amministrazioni e degli operai agricoli (art. 2, commi 2 e 3). I commi da 31 a 35 dell’art. 2 della legge n. 92/2012 introducono un contributo aggiuntivo a carico dei datori di lavoro per tutti i casi di interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per causa diversa dalle dimissioni, intervenuti dal 1° gennaio 2013. L’attuale testo dell’art. 31 della legge n. 92/2012, come sostituito dall’art. 1, comma 250, lett. f), della legge 24 dicembre 2012, n. 228, stabilisce che in tutti i casi di “interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per le causali che, indipendentemente dal requisito contributivo, darebbero diritto all’ASpI”, intervenuti a decorrere dal 1° gennaio 2013, è dovuta, a carico del datore di lavoro, una somma pari al 41% del massimale mensile di ASpI per ogni dodici mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni (per espressa previsione di legge nel computo dell’anzianità aziendale vengono ricompresi anche i periodi di lavoro con contratto a tempo determinato, se il rapporto è proseguito senza soluzione di continuità o se comunque ha avuto luogo alla restituzione del contributo addizionale previsto per i contratti a termine). Il contributo è dovuto anche per le interruzioni dei rapporti di apprendistato per qualsiasi causa diversa dalle dimissioni o dal recesso del lavoratore, ed è dovuto quindi anche in caso di ordinario recesso del datore di lavoro al termine del periodo di formazione in apprendistato.

D’altra parte, nonostante il riferimento normativo per il parametro di calcolo del contributo obbligatorio riguardasse, fin dal testo originario della legge n. 92/2012, l’anzianità “aziendale” del lavoratore, l’inadeguatezza della fase di attuazione della riforma ha provocato una aspra querelle proprio riguardo alla inclusione fra i datori di lavoro obbligati al versamento anche quelli che occupano lavoratori domestici (colf e badanti).

Invero fin dal primo momento una analisi serena e capace di evitare panico e sconforto (anche su questo) nelle famiglie e nei cittadini bene avrebbe potuto chiarire che l’obbligo avrebbe dovuto essere limitato ai datori di lavoro imprenditori o se anche non imprenditori, ma funzionalmente organizzati e quindi escludere i datori di lavoro domestico.

In questo senso si è, finalmente, pronunciato l’Inps con la Circolare n. 25 dell’8 febbraio 2013, il cui chiarimento è stato anticipato e reso noto dai maggiori organi di informazione nazionale, peraltro senza entrare nel merito delle caratteristiche di “aziendalità” o meno del contributo dovuto, ma semplicemente invocando le, non meglio precisate, “peculiarità” del rapporto di lavoro domestico.

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